Ventresca: parte nobile ricavata dai muscoli del ventre più grassi e morbidi, generalmente venduta a filetti.Bottarga: uova di tonno essiccate e lavorate, dal colore rosa scuro e il sapore intenso e persistente. Vengono realizzate dall’essiccazione delle sacche ovariche del tonno appena pescato, e commercializzate in polvere o panetti da grattugiareTarantello: parte sotto la pelle dell’addome. Grassa, ma non come la ventresca. Per molti è la giusta via di mezzo tra la ventresca e il resto della carne.Tonnina: di solito si intendono i filetti in salamoia, ma per i siciliani la “tunnina” è anche la carne del tonno.Cuore di tonno: salato, pressato o essiccato, tipico della provincia di Trapani, dal gusto deciso e solitamente servito a fette sottili, condito solo con un filo d’olio e una fettina di limone.Guance: uno dei sapori più seducenti dell’animale, specie se cotte alla brace. Ma si mangiano anche crude o in altre preparazione. Un’altra parte molto molto grassa e ghiottissima dell’animale.Ficazza: specialità del trapanese a base dei muscoli dorsali e le parti più vicine alle spine. Una sorta di salsiccia di tonno di colore scuro da mangiare a fettine.Musciame: filetto di tonno sotto sale di colore scuro.Lattume: prodotto ottenuto dalle gonadi (sacca del liquido seminale del tonno) messe sotto sale. Insomma, lo sperma del tonno maschio corrispettivo goloso della bottarga che sono le uova del tonno femmina. Generalmente, viene venduto in vasetto.Trippa: sorprendentemente molto simile, una volta lavorata e cucinata spesso con pomodoro cipolle e patate, ad una normalissima trippa bovina. A Carloforte, in carlofortino, si chiama belu.Buzzonaglia: parti più piccole e meno pregiate, che non vengono usate per gli altri prodotti. Viene usata solitamente per condire la pasta.
Sarà una Pasqua diversa, anche a tavola. La quarantena getta un ostacolo sui nostri riti, come li abbiamo sempre conosciuti e praticati. Già, perché la cucina ha un valore simbolico che si intreccia con questa festività ma con connotazioni che si allacciano alla religione, ai costumi ed all’evoluzione della nostra società. E che adesso assumono un significato particolare non solo nel presente ma anche in ottica post Covid-19. Riflessioni, queste, che arrivano da una conversazione di WineNews con Massimo Montanari, considerato uno dei massimi storici contemporanei oltre che docente di storia medievale e dell’alimentazione all’Università di Bologna.
Ma che significato assume la tavola pasquale attraverso il racconto dei suoi piatti simbolo? “Non esiste uno standard uniforme per tutti – spiega Montanari – la Pasqua è una festa universale, nel mondo cristiano, nel mondo ebraico, nel mondo islamico e in tutte le religioni anche pre-cristiane e pre-ebraiche. Diciamo che esiste una versione naturalistica della Pasqua come festa della rinascita della natura, come festa della primavera. Poi ci sono delle declinazioni storico-religiose di questo evento legato a racconti, storie e miti. La Pasqua ebraica ricorda la fuga dall’Egitto degli ebrei che tornano nella terra promessa e da lì nascono alcuni simboli importanti che sono tra l’altro rimasti nella nostra tradizione: come quello dell’agnello, l’animale che fa compagnia agli ebrei nel deserto durante questo ritorno nella Palestina. Direi, però, che, dal punto di vista simbolico, l’elemento più comune e costitutivo dell’idea di Pasqua è l’uovo. L’uovo come segno della rinascita. Ovviamente la Pasqua cristiana celebra una rinascita diversa ma l’uovo ne diventa il simbolo alimentare. L’uovo che entra nelle tante preparazioni come le torte pasquali, l’uovo sodo, l’uovo che viene benedetto o che diventa di cioccolato nella moderna industria alimentare”.
Ma più che il contatto con il cibo, ciò di cui ci sentiremo privati è il calore umano. La tavola come emblema dell’unione familiare, del ritrovo collegiale. Montanari sottolinea questa sottrazione ma allo stesso tempo nota come le persone hanno già prodotto degli “anticorpi” a questo allontanamento fisico. “Quello che ci mancherà – dice Montanari – è soprattutto la compagnia, la convivialità. Anche se questo periodo di “domiciliazione forzata” ha in qualche modo accentuato l’idea della convivialità come sentirsi insieme, come desiderio di condividere. Abbiamo visto in queste settimane degli spettacoli culturali di persone che suonano, parlano e bevono insieme da luoghi diversi. Penso che la stessa cosa succederà per la Pasqua che, in qualche modo, è proprio l’essenza della convivialità, un aspetto che paradossalmente emerge con un’assenza delle persone ma una presenza della loro compagnia. Io trovo questo molto bello, direi che non è una distanza ma una vicinanza sociale nella distanza fisica. Una reazione commovente in questo momento che stiamo vivendo”.
Viene da pensare che come in tutti i grandi eventi epocali e le grandi crisi, qualcosa di cambiato rimarrà in tanti aspetti. Come muterà il nostro approccio filosofico, ideale ma anche pratico al vino, al cibo e all’agricoltura che poi è la base di tutte le produzioni? “Condenserei tutto questo – continua Montanari – in una parola: rispetto. Ho l’impressione che nei confronti del cibo, del vino, di tutti quelli che sono i prodotti del lavoro dell’uomo, sia stia verificando una sorta di avvicinamento affettivo, a partire dal fatto che il cibo e il vino sono elementi essenziali della vita. Una ovvietà che assume tutto il suo spessore emotivo nei momenti di difficoltà. Quando noi vediamo le lunghe file nei supermercati, sono forme anche un po’ patologiche, se vogliamo, ma che hanno un fondo importante nel desiderio di avere cibo e di stare al mondo. Anche la pratica attuale di cucinare in casa, di prepararsi il cibo, magari di misurarlo meglio per non sprecarlo e di fare bene i conti su quello che ci serve ho l’impressione che aiuti a riacquistare, nei confronti del cibo e del vino, un rapporto interattivo. L’abbondanza che abbiamo vissuto nei decenni scorsi ce le ha fatte considerare meno queste cose, le abbiamo date per scontate. Adesso invece capiamo che sono le più importanti della nostra vita e ci avviciniamo ad esse con più empatia. Io credo che da questa brutta esperienza ne usciremo con una forma maggiore di rispetto nei confronti di quello che mangiamo e di quello che beviamo. Sarà qualcosa di utile e anche di bello. Mangiare e bere sono gesti che io chiamo di relazione tra noi e qualcosa.
Alimentazione e gastronomia nell’antica Grecia
TANTO PESCE, POCA CARNE
(dalla cucina pastorale di Omero alle ‘mille e una’ ricetta di Archestrato di Gela)
Il mio primo intento nella scelta del titolo per questa nota è quello di segnalare che:
Le tappe letterarie più importanti attraverso 5 sec. di storia greca riguardano: l’Iliade e l’Odissea (lo specchio preclassico, per l’VIII-VII sec. a.C. ), la commedia (lo specchio classico, per il V sec. a.C. ) il genio culinario di Archestrato nel IV sec. a.C..
Archestrato è sicuramente l’autore, il poeta, che non solo capì ed insegnò l’importanza del gusto ma risulta oggi particolarmente vicino alla nostra mentalità per la sua scelta di vita: a) procurarsi sempre gli ingredienti migliori, anche se semplici, e limitati nel numero. b) gustare il loro ‘vero’ sapore con cotture semplici ma attente, senza sminuire il sapore dell’ingrediente di base con troppe aggiunte.
A proposito della cucina di carne:
Nell’Iliade:
indicatore primario di appartenenza alla loro classe sociale, quella aristocratica:
la carne è l’alimento primario degli eroi che sono ‘ricchi’, quindi possono permettersi economicamente questo ingrediente, e sono ‘combattenti’, quindi hanno bisogno di molte proteine.
1. non esiste l’arte culinaria: sono gli eroi in persona a preparare le vivande nel modo più semplice
2. non abbiamo alcun dettaglio gustoso perché è il pudore ad accompagnare sempre gli eroi omerici nel manifestare le loro voglie poco degne: è concesso sfamarsi di gusto ma mai assaggiare per gola (come non si esternano gli affetti così non si esternano i peccati di gola)
3. c’ era già, comunque, il piacere della tavola perché Omero ci dice che si dava inizio al banchetto ‘solo dopo che tutti avevano finito la loro fatica di cucina e dopo aver preparata la mensa’. Quindi erano tempi diversi quelli del cucinare e del banchettare
4. le scene della ‘preparazione dei banchetti’ ( preceduti nella norma dal sacrificio agli dei) sono molto simili tra loro e prevedono: la macellazione dell’animale e immediatamente dopo (senza alcuna frollatura) il taglio e la cottura arrosto.
Nell’ Odissea:
ghiottonerie e di manicaretti di ogni tipo, pietanze diverse quindi dai semplici pezzi di carne arrostite di cui si parla nell’Iliade.
Altri cibi ai tempi di Omero:
Ci chiediamo se davvero gli eroi omerici non mangiassero altro che carne, per esempio pesce o formaggio, legumi, o le olive (tanto amate dai Greci nei secoli posteriori ).
La risposta non solo plausibile ma attestata letterariamente da Ateneo (fine del II° sec. d. C.) è che mangiassero tutte queste cose ma non le trovassero degne d’essere citate in un contesto eroico-aristocratico.
Ai capisaldi di un’alimentazione sana andava poi abbinata, secondo i dettami della Di@aita di Ippocrate, un’attività fisica ”proporzionata alla quantità di cibo, alla costituzione del paziente, all’età e alla stagione dell’anno”.
A proposito della cucina di pesce:
il pesce, spregiato nei poemi omerici, divenne fra il V e IV secoloa.C. cibo molto amato anche se abbastanza caro nelle specie più pregiate, proprio come oggi. Era comunque l’alimento più diffuso in epoca classica soprattutto nelle città greche di mare e in Magna Grecia (ampiamente attestati sono i rinvenimenti di conchiglie negli abitati)
La commedia (antica/ di mezzo/nuova) ci informa sugli usi alimentari del periodo classico.
Ferecrate, commediografo contemporaneo di Aristofane, nella sua commedia I Minatori ci offre la descrizione del regno dei morti immaginata come il vero e proprio Paese di Cuccagna.
In Menandro (342-291a.C.), il più grande commediografo della Commedia Nuova, l’amore per il cibo non viene più considerato un elemento comico, da mettere alla berlina e in molte sue commedie uno dei personaggi è il cuoco, chiamato ma@geirov che Platone definisce uno che oltre a saper cucinare sa sgozzare, scuoiare e tagliare a pezzi le carni. Ricordo che chi sa solo cucinare era chiamato semplicemente oèyopoio@v)
Il cuoco in Menandro era sempre uno schiavo che, come libero professionista, veniva noleggiato a giornata per imbandire un pranzo importante e nel Fa@sma (Apparizione) il cuoco di turno alla fine del pranzo si presenta agli invitati dicendo: Applauditemi se il pranzo che ho preparato vi è sembrato (poiki@lh) vario/variopinto/dai molti colori. L’appellativo attribuito al pranzo ci suggerisce non solo la varietà dei cibi ma soprattutto dei colori delle varie portate.
In generale erano particolarmente apprezzati i sapori forti e l’agrodolce, e si faceva grande uso di spezie, in particolare coriandolo, cardamomo, e cumino; tra i condimenti si utilizzava la maggiorana, la menta, la mirra, il pepe, il silfio e il timo. Vera e propria ghiottoneria era il gàron, una salsa piccante che si otteneva facendo macerare insieme piccoli pesci di mare interi, salati e seccati al sole.
Ci si può lecitamente chiedere che fine faccia l’uso della carne nel periodo classico: sicuramente la maggior parte degli Ateniesi di città dovevano nutrirsi più spesso di pesce (pesce azzurro) che di carne. Raramente e per lo più dai ricchi, era consumata la carne, tranne quella di maiale (un porcellino di latte valeva 3 dracme) e i poveri di città la mangiavano solo di tanto in tanto in occasione dei sacrifici, perché quasi tutte le feste religiose contemplavano la macellazione e terminavano con distribuzione di carne o solenni mangiate gratis. In campagna invece i proprietari terrieri agiati mangiavano in abbondanza maiale, volatili, capretti, montoni e naturalmente la selvaggina che si procuravano cacciando.
Molto presenti nella cucina greca antica erano i legumi (che apportavano quelle proteine necessarie a sostituire la carne) e in parte gli ortaggi (diffusa la coltivazione del cavolo, caule).
Il primo vero «maître à penser» culinario della cultura greca nel IV sec. a.C., dunque non un semplice cuoco, fu Archestrato di Gela, un ricco signore che girò il mondo alla scoperta dei cibi migliori, dei prodotti migliori, delle rarità e ricercatezze gastronomiche tipiche dei vari paesi del Mediterraneo. Per questo motivo lo storico Pausania lo definisce il periegeta della cucina.
Prima di Archestrato, nativo di Gela in Sicilia, la storia della cucina siciliana vanta già una lista di buongustai gastronomi come Epicuro Siracusano a cui seguì Miteco.
Archestrato è il primo scrittore che ha scritto in versi dell’arte gastronomica in un poema intitolato Hedypàtheia (Le delizie della vita oppure meglio Il piacere del gusto) composta intorno al 330 a.C., una vera e propria guida gastronomica autoptica, perché frutto di osservazione diretta.
Dobbiamo a Ateneo (II° sec. d. C.) la trascrizione di circa 300 frammenti dell’opera di Archestrato da lui soprannominata Gastronomia ( Gαστρονομίa : γαστήρ [stomaco»]+ νομία [regole]) attribuendogli l’epiteto di ηéδονικός φιλόσοφος , cioè studioso esperto di ciò che riguarda il piacere, naturalmente a tavola.
Tracce del componimento di Archestrato affiorano negli usi gastronomici di Roma già prima della trascrizione fatta da Ateneo; li troviamo in autori della prima metà del I sec. d.C. : nell’opera culinaria di Apicio e nella Satira IV del libro II di Orazio.
Archestrato non fu mai il cantore di tavole povere, i suoi gusti erano particolarmente raffinati ed il suo motto emblematico era comprare all’istante quanto fa comodo, senza questionare sul prezzo.
Dal punto di vista letterario, il suo modo di esporre divenne canonico e porta appunto il nome di schema archestrateo, lo schema che contraddistingue i ricettari più seri dove si nota lo sforzo di coniugare la ‘ricerca sul campo’ degli ingredienti, i più vari, con dettagliate e precise ‘istruzioni d’uso’: …..a fianco metti qualche cappero spezzettato, e se desideri ancora più sapore aggiungi dell’aceto forte; fallo assorbire bene, e poi mangia in fretta, senza paura di soffocarti per troppo zelo. La parte rimanente del pesce….andrebbe infornata. A questo proposito va sottolineato come Archestrato indichi perfino la stagione migliore per il consumo di ogni cibo; e per le specie ittiche poi, considerando che più di 200 vv. su 300 sono dedicati all’ingrediente pesce, indica addirittura quando e dove comprare la miglior specie al miglior prezzo; tutto ciò viene poi seguito dalla ricetta vera e propria.
Sono continue le sue insistenze per una cucina naturale e genuina, in cui la fanno da padrone gli ingredienti di pregio (come pesci rari, freschissimi e costosi), una cucina che prevede pochi e semplici condimenti che non coprano assolutamente il profumo e il gusto della componente base del piatto ( gli intingoli lui li chiama untumi): solo olio, sale e, quando occorre, aceto (sottolineo che gli antichi non ebbero il limone prima di una certa epoca, e quando lo ebbero lo usarono principalmente contro le tarme o come antidoto ai morsi dei serpenti. Non passò mai loro per la mente che esso potesse avere anche un uso alimentare) e erbe aromatiche. Ecco un passo proverbiale: Se tu, caro Mosco, insisti di voler conoscere il modo migliore di condire quel pesce, avvolgilo in foglie di fico con la maggiorana, non troppa. Niente formaggio, non diciamo assurdità! Avvolgilo semplicemente in foglie di fico, e legalo in punta; lascialo sulla brace e rifletti bene sul tempo di cottura, finché sia cotto senza bruciare. Fai in modo che arrivi dall’amabile Bisanzio, se desideri il meglio, ma anche se sarà pescato qui intorno, avrai un ottimo ingrediente.
Archestrato non disdegna neppure il pesce povero, come il serrano o lo sgombro che deve essere conservato per tre giorni prima di essere messo sotto sale, in acqua salmastra entro un’anfora nuova
La sua polemica più accesa è rivolta contro gli eccessi della cucina Siciliana, davvero celebre per la varietà dei piatti, ma, specie quella Siracusana, criticata per eccessiva elaborazione e pesantezza; leggiamo infatti l’accusa ai cuochi Siracusani di essere troppo barocchi, fino a guastare coi loro eccessivi condimenti, alimenti eccellenti di per sé, mascherandone e snaturandone i sapori. Archestrato non è solo un raffinato ‘buongustaio’ ma, quando parla del numero opportuno dei commensali ad una tavola imbandita, coglie non solo la forma e il decoro della mensa ma anche la sostanza del ‘piacere di stare a tavola in compagnia’; al proposito, Ateneo riferisce così l’incipit dell’ opera di Archestrato:
Offro lezioni all’intera Ellade …fate in modo di servire il pranzo su di una tavola molto ben apparecchiata. Vi si dovrebbero sedere in tre o quattro al massimo, o a limite non più di cinque. Altrimenti noi dovremmo imbandire una mensa da campo per soldatacci che vivono di rapina.
Per aver invitato a spendere oltre la norma per godere del piacere del gusto, Archestrato fu molto contestato sia dagli storici ellenistici che dai filosofi stoici, dediti alla massima morigeratezza, tanto che lo stoico Crisippo (III° sec. a.C.) scrisse testualmente su di lui: ha forse tralasciato qualcosa questo bel tipo di poeta epico fra tutto ciò che può distruggere la morale, lui, unico uomo al mondo a voler emulare la vita di Sardanapalo? Occorre notare però che, se Crisippo ce ne parla, è proprio perché Archestrato, diventato famoso, arrivò ad educare, quasi in modo irreversibile, il gusto dei suoi contemporanei.
Cristina Catardi
L’ANCIUÉ, GLI ACCIUGAI DELLA VALLE MAIRA
Gli acciugai (anciué) della vallata alpina cuneese, Valle Maira, valle occitana come le valli Grana, Varaita, Stura, Po, Chisone, Germanasca e Alta Valle di Susa, iniziano la loro attività di commercio di pesce conservato (acciughe, sarde, merluzzo) in Piemonte e si spingono oltre, già nel Medioevo, soprattutto per l’iniziativa di famiglie di origine ebraica.
Il contrabbando del sale, bene sottoposto a gabelle, fu praticato dagli acciugai, che conservavano sotto sale il pesce acquistato in Riviera e trasportavano la merce sui tipici carretti in legno per le valli alpine e la pianura padana.
In tempi più recenti anche l’essiccazione del pesce divenne un’attività economica importante nelle valli alpine occidentali, soprattutto in Valle di Susa, dove il vento non mancava e gli essiccatoi di pesce si diffusero, grazie anche alla presenza della ferrovia che agevolava i trasporti a lunga distanza.
I beni alimentari definiti di lusso, fra cui la carne, il vino, il cibo inscatolato o conservato, erano soggetti a tassazione comunale, ovvero all’imposta sul consumo. Ne erano esenti i generi di prima necessità. Quest’imposta durò in Italia fino al 1972, quando arrivò la modifica della finanza degli enti locali e l’introduzione dell’IVA.
ACCIUGHE,VENDITA, PRODUZIONE, CONSUMO
Sull’origine del commercio delle acciughe nelle nostre valli e più precisamente in Val Maira ci sono leggende e realtà storiche.
La leggenda dice che nei secoli passati esisteva un fiorente commercio con Genova, di capelli per fare parrucche e che un uomo aveva barattato il suo prodotto con dei barili di acciughe che aveva poi rivenduto durante il tragitto di ritorno realizzando un ottimo profitto cosa che gli suggerì di continuare con questa attività.
La realtà storica dice che sì esisteva questo commercio dei capelli con Genova, ma anche un grosso contrabbando di sale che allora pagava forti dazi doganali e pertanto era un bene di grande valore soprattutto nelle valli montane dove mancava totalmente.
Il sale veniva nascosto sotto strati di pesce salato (acciughe o sarde) e successivamente venduto alle famiglie più ricche mentre il pesce veniva acquistato dai meno abbienti ed utilizzato come condimento per la necessità di sale dando vita a pietanze estremamente povere come la “Bagna Cauda”, ma decisamente con gusti piuttosto forti, anzi vedendo le ricette tradizionali, oggi potremmo quasi definirle immangiabili.
Negli anni successivi alle due guerre mondiali con le conseguenti crisi economiche e il notevole dissanguamento di giovani vite, tributo pagato a caro prezzo dalle nostre genti, assistiamo ad una sempre più crescente emigrazione verso la pianura.
Questa emigrazione avviene però gradualmente e a macchia d’olio iniziando agli inizi del secolo in città come Cuneo, Asti, Torino ed altri importanti centri del Piemonte per proseguire con Milano, Bergamo, Como ed altre località del nord Italia fino a città come Bologna, Faenza, Fidenza e Parma.
Questa emigrazione dà vita ad una nuova figura nel panorama commerciale italiano, cioè l’acciugaio.
Inizialmente la patente di venditore ambulante veniva concessa ai meno abbienti o addirittura ad ex carcerati ma i montanari scesi dalle nostre valli, abituati alle fatiche ed ai rigori dell’ambiente natio non tardarono a farne una professione onorevole ed altamente remunerativa.
I primi che iniziarono non tardarono a chiamare altri compaesani i quali cominciarono facendo i garzoni per successivamente mettersi in proprio cominciando magari con un carrettino e due barili di acciughe in prestito.
Posso dire che la maggior parte di loro ha fatto un ottima carriera passando dal carrettino al motocarro al camioncino ed infine all’automarket. Alcuni hanno aperto magazzini all’ingrosso di import export e altri, pochi, non sono riusciti e sono tornati al paese.
Sicuramente, oltre alla grande forza di volontà, al successo contribuì il boom economico successivo agli anni ’40/’50 in cui il nostro acciugaio era per eccellenza il negozio dove la gente poteva reperire i più svariati articoli alimentari ad un prezzo decisamente più basso.
L’avvento dei supermercati chiaramente ridimensionò il volume di lavoro e chiaramente portò l’acciugaio a una maggiore specializzazione, trasformazione tuttora in corso in cui assistiamo alla progressiva creazione di punti vendita di specialità alimentari anche cotte e altamente specializzate a livello regionale o internazionale. In questo momento assistiamo ad una produzione sempre più incisiva di acciughe sfilettate e messe sott’olio da usarsi sia come antipasto che in cucina.
Produzione delle acciughe
La conservazione di prodotti freschi mediante affumicatura o salagione risale a tempi antichissimi dove c’era la chiara esigenza di mantenere i cibi per tempi medio lunghi e per stagioni calde in totale assenza di frigoriferi.
In tempi più recenti possiamo dire che agli inizi del secolo e soprattutto dopo la guerra civile Spagnola assistiamo ad una emigrazione di salatori siciliani sulle coste atlantiche del golfo di Biscaglia (Paesi Baschi) dove era possibile trovare un prodotto abbondante e di qualità nettamente superiore.
Ancora oggi possiamo trovare produttori spagnoli con cognomi italiani come Cusumano, Nasari, Olivieri, Giannitrapani, Zizzo ecc. ecc.
Oggi sono svariati i metodi di pesca ma ormai possiamo dire che sono radar, sonar e scandagli a farla da padroni; l’unica differenza viene data dalle reti che dovrebbero avere maglie che permettono la fuga agli esemplari più piccoli. Purtroppo trattandosi di uomini il condizionale è d’obbligo.
Per fortuna è ormai quasi totalmente bandita la pesca a strascico che oltre all’annientamento completo dei banchi di pesce distruggeva la flora marina privandoli del cibo o rifugi per la deposizione delle uova.
Le pezzature vengono determinate a secondo della grossezza e del peso.
Il pesce viene normalmente acquistato all’asta dove tutte le barche devono portare il prodotto. In Italia è normale l’asta al rialzo, mentre in Spagna è al ribasso cioè il singolo produttore può decidere quando fermare il prezzo e quindi acquistare.
Attualmente si stanno aprendo novi mercati come Croazia, Grecia, Tunisia ed altri con qualità di pesce a volte estremamente interessanti.
Curioso il metodo di acquisto in Croazia dove l’accordo viene preso con i singoli capitani delle barche e, dopo aver stabilito il prezzo, ci si impegna a ritirare tutto il prodotto pescato nella campagna.
Partendo dal presupposto che l’acciuga appartiene alla grande famiglia del pesce azzurro si divide a sua volta in diverse specie.
Le più importanti sono Engraulis encrasicolus che troviamo nel Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico, e Engraulis anchoita nell’oceano Atlantico meridionale e Engraulis nipponica nell’Oceano Indiano.
Purtroppo la pesca indiscriminata e l’inquinamento stanno mettendo in seria difficoltà la riproduzione delle specie.
L’acciuga salata in cucina
Come già accennato precedentemente il consumo di pesce salato si è sviluppato soprattutto nell’entroterra dove non era possibile reperire pesce fresco di mare e soprattutto c’era il bisogno di sale nell’alimentazione.
Vediamo quindi alcune ricette tradizionali come la bagna cauda e filetti di acciughe con varie salsine che variano da regione a regione o complemento di pizze focacce per finire in ottime insalatone o come ingrediente base per i famosi crostini Toscani, sughi per pasta o verdure.
Oggi possiamo trovare più facilmente l’acciuga in ristoranti di buona categoria anzichè nelle osterie o trattorie più popolari come un tempo, dove l’acciuga faceva da accompagnatrice a sonore bevute.
Molte sono le divagazioni che possiamo trovare s
oprattutto negli antipasti dove il prodotto viene proposto sia caldo che freddo.